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Alzheimer: la corsa contro il tempo

 15 giugno 2018
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 Categoria: Salute
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 Scritto da: admin
alzheimer

Da una parte la memoria che comincia ad affievolirsi, dall'altra gli scienziati che cercano di scoprirlo il più presto possibile. Perché contro l'Alzheimer si deve giocare d'anticipo.


Arriva solo o accompagnato da un familiare, perché è preoccupato, perché non si sente più come "quello di una volta". È una delle 1800 persone che negli ultimi anni hanno varcato la soglia di una struttura specializzata nella diagnosi delle demenze, nella prescrizione di farmaci specifici e terapie comportamentali.


Naturalmente non tutti sono malati, ma la molla che li spinge è quella sottile paura di avere l'Alzheimer, che scatta quando si accorgono di aver dimenticato un appuntamento importante, di non riuscire a ricordare il contenuto di un libro appena letto, di avere difficoltà a trovare le parole giuste in una conversazione o di sentirsi ogni tanto confusi.



Quali sono i fattori di rischio dell'Alzheimer?


Segnali che non passano inosservati perché di Alzheimer oggi si parla molto, complice anche l'invecchiamento progressivo della popolazione. Più problematico, invece, diagnosticarlo con certezza, tanto che, secondo un'indagine condotta su 323 famiglie dell'unione europea, circa la metà dei malati al momento della diagnosi non è più in grado di comprenderne il significato.


Fra le forme di demenza che colpiscono gli anziani, l'Alzheimer rappresenta il 50/60 per cento dei casi (circa 600mila persone in Italia). Sui meccanismi che innescano la distruzione delle cellule cerebrali le conoscenze oggi sono migliorate, ma non definitive.


Si sa, per esempio, che a un certo punto il processo di elaborazione di alcune proteine nei tessuti cerebrali va in tilt, provocando un accumulo di proteina beta-amiloide che si aggrega in placche. In realtà non è ancora stata provata la correlazione fra densità delle placche e gravità della malattia, ma è certo che la loro presenza in due strutture cerebrali, l'ippocampo e la corteccia (riscontrabile dopo la morte) è caratteristica dei malati di Alzheimer.


Poi c'è la proteina tau: quando impazzisce determina la nascita di grovigli neurofibrillari, presenti nel cervello dei malati. E stata anche riscontrata una rara mutazione genetica, trasmessa di padre in figlio, che scatena la sovrapproduzione di betaamiloide. Infine, i fattori di rischio: la presenza di un gene detto ApoE, i bassi livelli di sostanze come vitamina B12 e acido folico importanti per la salute delle cellule nervose, i traumi cranici, una storia familiare di demenza.



La terapia delle parole incrociate


Ma gli scienziati stanno valutando anche l'influenza dello stile di vita. Secondo alcuni ricercatori. per esempio, una dieta ricca di antiossidanti ridurrebbe il rischio di Alzheimer, in particolare nei portatori del gene ApoE; e uno studio afferma che l'uso di farmaci anticolesterolo detti statine fa diminuire il rischio di Alzheimer.


Una novità è l'aiuto indiretto che possono dare i farmaci contro l'ipertensione. E’ stato verificato che nelle persone predisposte a causa del gene ApoE, il rischio di sviluppare l'Alzheimer raddoppia se non si prendono antipertensivi, mentre chi si cura in questo modo rimane nella media.


Inoltre è stato notato che, nonostante il farmaco, le donne oltre i 75 anni risultano più esposte. Partendo da questi elementi i fattori di rischio sono stati allargati alla sfera sociale: poiché fra gli anziani sono in prevalenza le donne a vivere da sole e questa situazione può influenzare le loro abilità intellettive.


Sono stati tenuti sotto controllo per sei anni oltre 700 anziani dei due sessi e si è scoperto che un rischio più basso di malattia si riscontra tra le persone intellettualmente o socialmente più attive. Per esempio, coloro che fanno le parole crociate, giocano a scacchi o si dedicano al giardinaggio.


È apparso importante, se si vive da soli, anche dividere il proprio tempo con un'altra persona, andando insieme a teatro o perfino al bingo. Al contrario, chi ha una vita povera di interessi e relazioni presenta un rischio aumentato del 60 per cento.


Ora si deve capire se è la perdita delle capacità intellettive a far isolare una persona o, al contrario, se è l'isolamento a far "impoverire" i neuroni.



Alzheimer: quali sono i sintomi e le terapie?


Una mente sempre allerta, una memoria in continuo esercizio, una rete di relazioni stimolanti: proprio l'opposto degli effetti dell'Alzheimer che si manifestano prima di tutto attraverso la perdita della memoria e poi di altre facoltà cognitive come il linguaggio, la capacità di apprendere, pensare e programmare le proprie azioni.


Sintomi che peggiorano gradualmente e che si affiancano ad altri come ansia, alterazione dell'umore e dei ritmi sonno-veglia, disturbi dell'attività psicomotoria, agitazione, aggressività. È un crescendo che influisce drammaticamente sulla qualità della vita e delle relazioni e che rende il malato irriconoscibile ai suoi stessi familiari.


Una terapia farmacologica è possibile e agisce prevalentemente sui sintomi, rallentando il decorso della malattia per almeno due anni. Per compensare almeno temporaneamente la perdita di neuroni si blocca l'enzima acetilcolinesterasi che regola la presenza di un neurotrasmettitore importante per la memoria, l'acetilcolina.


Oppure si prende di mira, sempre farmacologicamente, un altro neurotrasmettitore, l'acido glutammico, che quando viene prodotto in eccesso come nei malati di Alzheimer accelera la morte dei neuroni.


Una corsa contro il tempo che non ammette rallentamenti e neppure accelerazioni indebite, come è avvenuto un anno fa per il vaccino di un'azienda irlandese. Sulle cavie aveva dato risultati entusiasmanti: faceva regredire la malattia a livello cerebrale e migliorava addirittura il comportamento. Tanto che si è passati direttamente a una sua somministrazione estesa sull'uomo. Il risultato: un alto numero di meningoencefaliti, che ha costretto la casa farmaceutica a sospendere la sperimentazione.



Una spia net sangue


Il fatto è che la degenerazione cellulare può iniziare anche dieci anni prima del momento in cui l'Alzheimer si manifesta. E quando si comincia la cura, i neuroni rimasti non sono più sufficienti a compensare la perdita.


Per questo motivo si punta su una diagnosi precoce, per esempio cercando una "spia", un marcatore, che sia presente e identificabile nelle fasi iniziali, quando i sintomi non sono ancora manifesti, e che permetta di prevedere l'andamento della malattia nel tempo.


Il primo passo è stato fatto: è stato individuato nel sangue delle persone già malate una sostanza che sembra candidata a svolgere il ruolo di spia. La sostanza è una citochina, molecola coinvolta nei processi infiammatori. Ora, nell'Alzheimer è sicuramente presente fin dagli inizi una componente infiammatoria.


È come se l'organismo fosse costretto a difendersi da un agente estraneo (la proteina beta-arniloide) e, non riuscendo a eliminarlo come fa di solito, continuasse a produrre citochine finché le cellule si danneggiano e cominciano a morire.



Un aiuto dai sonar della Marina


La diagnosi precoce passa anche attraverso l'indagine con apparecchiature di nuova generazione e la ricerca di sistemi per rendere gli attuali metodi di indagine, come la tomografia Pet, sempre più sensibili. Alla Columbia University di NewYork, per esempio, è in avanzata fase di sperimentazione un apparecchio, NeuroGraph, che promette una diagnosi in circa dodici minuti.


L'apparecchio sfrutta le potenzialità di un sonar utilizzato dalla Marina americana per catturare i segnali elettrici che circolano nel cervello in risposta a stimoli esterni come la luce o il suono.


Quindi li paragona a quelli di persone in perfetta salute, conservati in una banca dati, per identificare le anomalie provocate dall'Alzheimer e anche da altre patologie come il Parkinson.


All'Università di California, invece, utilizzano la Pet (tomografia a emissione di positroni) con un particolare mezzo di contrasto che permette di vedere le placche di beta-amiloide e i grovigli neurofibrillari. Viene utilizzato sulle persone predisposte, col gene ApoE, per rilevare precocemente la malattia.


L'idea è totalmente nuova. Poiché nei malati di Alzheimer il volume del cervello si riduce media- mente del 2,5 per cento, a causa della perdita di cellule e connessioni, i ricercatori sfruttano le capacità di calcolo dei supercomputer applicate alla risonanza magnetica per evidenziare variazioni anche minime del volume cerebrale.



Misurare la memoria


Ma gli studiosi stanno ora cercando di scoprire la malattia senza neppur toccare direttamente il paziente: attraverso nuovi indizi rilevabili da particolari esami psicologici. Alcuni test neuropsicologici permettono di diagnosticare l'Alzheimer, ma solo se questo è in fase di lieve o moderata entità.


Ma ormai si sa che c'è sicuramente una fase precedente in cui la malattia lancia dei segnali, solo che il paziente e i familiari non li considerano tanto preoccupanti da rivolgersi al medico. La difficoltà è riuscire a distinguerli dal normale invecchiamento cerebrale. Basti pensare che è accertato un leggero declino della memoria già dopo i 40 anni.


Ora c'è una novità importante su questo fronte: la conferma dell'esistenza di una particolare forma di perdita della memoria. Secondo molti studiosi il cosiddetto deterioramento cognitivo lieve, rilevante anche se non compromette gravemente la vita quotidiana, potrebbe rappresentare la fase iniziale dell'Alzheimer.


Ed esistono già dei test psicologici in grado di aiutare il medico a individuarla. Uno studio negli Stati Uniti, ha tenuto sotto osservazione persone affette da questa smemoratezza: dopo quattro anni circa la metà di esse ha manifestato sintomi evidenti di Alzheimer. Ora è in corso un altro studio su 700 pazienti per verificare l'efficacia di una terapia preventiva con gli stessi farmaci usati normalmente per ritardare gli effetti dell'Alzheimer sulla memoria, gli inibitori dell'acetilcolinesterasi.



Curare chi si prende cura


Ma la sperimentazione guarda anche al presente. È documentato che il peso maggiore, e non solo dal punto di vista economico, dell'assistenza ricade sulla famiglia. Soprattutto chi segue il malato paga la fatica, la mancanza di sonno, lo stress con un abbassamento delle difese immunitarie e con un aumento dell'uso dí psicofarmaci che si traduce poi in un costo sociale.


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